All'inizio lo confondevo con
"Novantesimo minuto" perché dalla mia camera sentivo tutte quelle
urla e pensavo che fossero i gol.
A me non interessava il calcio e nemmeno la televisione.
Però il sabato sera, mentre aspettavo che i miei
amici mi passassero a prendere, non sapevo mai cosa fare così cominciai
a guardare quella trasmissione.
Di per sé non era un granché: i filmati
erano realizzati in modo grossolano, il presentatore sembrava di legno,
la presentatrice aveva una faccia senza personalità, tutti e due
si impegnavano in spontanei siparietti che si vedeva lontano un miglio
che erano strapreparati.
Quello che invece mi colpiva
era il messaggio del programma e cioè che non si moriva. Tu ti mettevi
a guardare quel programma e sapevi che avresti visto delle cose allucinanti
ma che nessuno sarebbe morto.
Era come un film di John Wayne: non poteva passarti per
la testa che avrebbero potuto vincere gli indiani.
Ho cominciato ad appassionarmi
veramente: aerei che cadevano, appartamenti che prendevano fuoco, coccodrilli
che balzavano fuori dal fiume torbido, incidenti stradali da orgasmo di
carrozziere e mai nessuno che morisse.
C'era sempre un uomo buono pronto ad accorrere, un servitore
dello stato deciso a fare il suo dovere, un angelo custode sotto anfetamina.
"Ultimo minuto" dava un messaggio di speranza a tutta
l'Italia sfigata.
L'idillio fu interrotto dalla
storia di un camioncino, con dentro un uomo e due cani, che andava fuori
strada e cappottava.
L'uomo veniva ritrovato vivo dopo tre giorni ma mentre
uno dei due cani era rimasto lì, vicino a lui, tutto quel tempo
l'altro era morto sul colpo.
"È morto il cane?" dissi a mia madre.
"Cosa ci vuoi fare?" mi rispose "Almeno si è salvato
l'uomo."
"Ma un morto è sempre un morto" insistetti.
"Era solo un cane" concluse lei.
Per me, anche se era andata davvero così, non
avrebbero dovuto dirlo: "Ultimo minuto" non era un tg qualsiasi era una
fede.
Mi sentii tradito e con me, credo, tutta l'Italia sfigata
che aveva un cane.
Smisi di guardare "Ultimo minuto" e cominciai a guardare "Stranamore". Lì ero certo che non sarebbe morto nessuno e poi la domenica sera non sapevo mai cosa fare.
"Stranamore" era un concentrato
di sensazioni belle.
Soprattutto c'era il momento sadico della porta che si
apriva.
Se dietro la porta c'era qualcuno ti veniva da dire "Vieni
via così" e magari smollavi qualche lacrimuccia, se non c'era nessuno
eri contento lo stesso perché pensavi "Ben ti sta, che non mi piacevi
dall'inizio".
Purtroppo con l'andare delle puntate erano sempre meno
le storie che finivano male. La gente voleva le storie che finivano bene
e poi, spesso, quelli a cui veniva recapitato il messaggio ci tenevano
ad andare in televisione e potevano ben passare sopra a un "Anch'io ti
amo ancora." Magari usciti dagli studi si lasciavano però intanto
il loro spot l'avevano avuto.
Anch'io volevo andare a Stranamore,
anch'io volevo andare in televisione davanti all'Italia che ama.
Pensai di cercare una qualche ex ma mi resi conto che
in questo modo non mi sarebbe piaciuto. Infatti c'erano due categorie ben
distinte: c'erano quelli che mandavano i messaggi, i tristi che amano senza
speranza, quelli che aspettano che si apra la porta, e c'erano quelli che
ricevevano i messaggi cioè i tosti, i veramente amati, quelli che
decidono se esserci o meno dietro quella porta.
Io volevo essere fra questi.
Cominciai a riflettere seriamente su quale strategia usare. Ero un bel ragazzo e potevo farcela, era solo questione di alzare la mia quota di probabilità.
Cominciai a mettermi con una
ragazza dietro l'altra, ci stavo una settimana, dieci giorni, quindici
se era particolarmente bella o appiccicosa.
Cercavo di dare il mio meglio, facevo regali, telefonavo
ogni momento, per quanto potessi mettevo le mani avanti progettando vacanze
o feste di fidanzamento ufficiale. Poi mollavo di colpo, senza spiegazioni,
adducendo motivazioni familiari che non potevo spiegare, cercando di creare
il più possibile quell'alone di mistero che le avrebbe spinte a
ricorrere a "Stranamore".
Intanto passavano i mesi e non
succedeva niente. Avevo affinato le mie tecniche ma anche così era
faticosissimo: un sacco di tempo, di energie, di soldi per regali, telefonate
e cene. E poi, cercare di accorciare le distanze nel minor tempo possibile
e subito dopo dover sopportare i pianti del distacco. Era diventato quasi
un lavoro così decisi di darmi altri tre mesi di tempo e poi basta.
Magari avrei provato con un'altra trasmissione.
Un pomeriggio chiamò Luigi, un amico che non vedevo da un po', preso com'ero dalla mia attività principale. Mi chiese se sabato pomeriggio volessi andare con lui a teatro. Dissi di sì, misi giù la cornetta e cominciai a saltellare per la casa: ce l'avevo fatta! Il teatro...figuriamoci. Da quando lo conoscevo, Luigi era stato un paio di volte al cinema: un film porno e uno d'azione. Quello era il solito stratagemma: farti contattare da un amico... la conoscevo troppo bene quella trasmissione. Finalmente anch'io avrei avuto il mio momento di gloria, anch'io sarei entrato nella schiera dei veramente amati.
Diedi il benservito a quella
con cui stavo con l'immensa soddisfazione di poterle dire che non l'amavo,
che mi ero sbagliato, che era brutta, che non capiva un cazzo e che i suoi
erano degli accattoni che stavano ancora in affitto.
Camminando per la strada mi sorprendevo a pensare "Ce
l'ho fatta diomago ce l'ho fatta." Scorrevo mentalmente tutte le
ragazze che avevo avuto cercando di immaginarmi quale di loro potesse essere.
Un teatro...forse quella ballerina bionda di Monza, o forse la cassiera
dell'Ariston, la Marta...la Franca...quella lì insomma.
Luigi venne a prendermi a casa
in leggero anticipo e il suo nervosismo non fece che confermare i miei
sospetti, disse solo "Accidenti come sei elegante". Davanti al teatro trovammo
una piccola folla radunata attorno a quel camper che tante volte avevo
visto in tv. Non c'era Castagna ma quell'altro di cui non ricordo mai il
nome e questa fu un po' una delusione.
Disse "Ciao sei Beppe? Devo consegnarti un messaggio,
ma stavolta non è un video-messaggio è un messaggio dal vivo.
Entriamo in teatro."
Pensai "Che novità, passerà certo alla
storia di Stranamore."
Ci sedemmo sulle poltroncine
con scritto riservato, il teatro era stracolmo e la gente urlava da pazzi.
Non appena si spensero le luci tutti fecero silenzio e tirarono il fiato,
io, per l'emozione, non riuscivo quasi a respirare.
Si aprì il sipario e di colpo sentii una specie
di fitta, uno strano dolore.
Sul palco c'erano i miei genitori, i cugini, i nonni
ancora vivi, tutti gli amici escluso Luigi e molti compagni di scuola;
c'erano persino gli zii di Catania che non vedevo da dieci anni. Sopra
di loro uno striscione mezzo molle diceva "Quando metterai la testa a posto?"
E mentre la gente ricominciava
a urlare e l'operatore mi inondava di luce alogena e quello di cui non
ricordo il nome incalzava col microfono pensai che ero rovinato, sputtanato
a vita, e che non me lo meritavo.