Fino ai quattordici anni sono stato un
ragazzo normale: avevo una vita normale e una famiglia normale.
Facevo colazione con latte e biscotti
e a merenda mangiavo un panino con la mortadella o col prosciutto crudo.
Quando sono passato alle superiori
mia madre ha cominciato a manifestare delle preoccupazioni che, all'epoca,
non riuscivo a comprendere.
Ogni mattina mi infilava il solito panino nello zaino ma
invece di augurarmi, come aveva sempre fatto, una buona giornata mi squadrava
nervosamente dicendo: "Non accettare mai niente dai tuoi compagni di scuola.
Se ti offrono delle merendine tu dì di no, se ti offrono del cioccolato
dì di no."
E io dicevo sempre
di no anche se non è che capitasse spesso che mi offrissero qualcosa.
Durante l'intervallo stavo sempre in disparte, a mangiare il mio panino,
mentre i miei compagni sghignazzavano fra di loro lanciandomi delle occhiate
di sdegno. Non mi invitavano mai alle feste o a mangiare la pizza; io
avrei voluto essere come loro ma non sapevo come fare.
Poi qualcuno ha
cominciato a sfottermi, a dire che avevo le mani unte, i capelli unti,
la faccia come un panino.
E un giorno non ce l'ho fatta più: sono andato dal
Nasini e gli ho chiesto se poteva farmi assaggiare una di quelle cose
che mangiavano loro.
Lui è stato gentilissimo, ha detto "Era ora che ti
svegliassi, fatti questo Lion."
Io ho cercato di fare lo spavaldo, come se ne avessi mangiati
da quando ero piccolo, ma invece mi tremavano le gambe pensando a tutte
le raccomandazioni di mia madre.
Ricordo ancora
il primo morso come fosse oggi: i denti che affondano man mano nella diversa
consistenza del cioccolato, del wafer, del malto, il sapore dolciastro,
la bocca impastata.
Era la cosa più
buona che avessi mai mangiato.
E poi la sensazione del cioccolato che ti entra nel sangue,
che ti arriva sparato nel cervello animandoti dal di dentro, gli occhi
vigili e attenti, i nervi saldi, le percezioni allargate.
Quel giorno cambiò completamente la mia esistenza.
Col Nasini diventammo
molto amici, a volte saltavamo la scuola e ce ne andavamo al parco. Io
buttavo la mortadella in un cestino, sbriciolavo il panino e lo davo ai
piccioni, poi aprivamo gli zaini e passavamo la mattinata facendoci un
sacco di robe dolci: Kinder cereali, KitKat, Duplo, Cioccorì, Kinder
Bueno, fette al latte.
Stavamo sdraiati a guardare le fronde, ad ascoltare i Pink
Floyd, a immaginarci un mondo migliore dove il cioccolato fosse gratis.
Mia madre ha cominciato
a preoccuparsi un po': ingrassavo a vista d'occhio ma a tavola non avevo
mai appetito. Io dicevo che era normale, che era la crescita, intanto
mi ero fatto un nascondiglio in cantina dove tenevo le merendine. Faceva
fresco, il cioccolato si conservava benissimo.
A febbraio sono
andato in settimana bianca con la scuola; avevo portato una bella scorta
di roba ma l'ho finita quasi subito.
In più, in quel paesino di montagna c'era solo un
piccolo tabaccaio ed era già stato saccheggiato dai miei compagni.
Ho cominciato a sentirmi male: avevo i brividi, la testa molle. Passavo
i pomeriggi nel bar del paese bevendo delle gran tazze di cioccolata che
avevano almeno il potere di placare un po' il dolore.
Il Nasini cercava
di aiutarmi, di contrattare con gli amici, ma non c'era niente da fare:
non c'era abbastanza cioccolato per tutti.
Sono tornato a casa a pezzi, nonostante la sosta all'autogrill,
con una sola certezza: ero a ruota di merendine.
Non m'importava più di niente: della scuola, della
famiglia, di niente di niente. Ero apatico, grasso, la mia faccia non
assomigliava forse più a quella di un panino ma era comunque piena
di brufoli.
I miei mi hanno preso di forza e portato da un medico.
E lì non ho potuto più mentire.
I giorni seguenti
sono stati tremendi.
Io avevo proposto un calo graduale, con delle tavolette
di cioccolato a scalare, i miei invece, su consiglio del dottore, hanno
preferito un rimedio drastico: mi hanno chiuso in camera per una settimana.
Mi portavano da mangiare delle cose salatissime due volte
al giorno.
Alla fine sono tornato a scuola accolto dall'indifferenza
generale: quello che mi era successo aveva messo tutti in allarme.
E poi, ormai, io ero bollato.
Solo il Nasini mi era ancora amico ma anche lui, dopo la
mia brutta storia, stava cercando di uscirne o almeno di diminuire.
È iniziato così un
periodo strano.
Stavo per conto mio, giocavo a tennis contro il muro o facevo
delle lunghe pedalate fuori città. Quando passavo davanti a un
tabaccaio o a un alimentari cercavo di pensare ad altro: alle coppe europee,
ai mondiali di nuoto.
Da casa mia erano scomparsi persino i biscotti, facevo colazione
con due uova al bacon. Non è durato molto.
Un giorno il Nasini mi ha detto
che un suo amico aveva comprato una partita di Galak e questo solo pensiero
è riuscito a mandare in tilt tutti i miei sforzi di cambiamento.
Di quel cioccolato bianco ne avevamo
parlato così tanto, senza riuscire mai a trovarlo, che era diventato
quasi una leggenda.
Non ci saremmo certo tirati indietro adesso.
Abbiamo iniziato con pochi grammi, un quadratino al massimo,
consci di avere a che fare con della roba pesante, poi la storia ci ha
preso la mano e siamo finiti a ruota anche di quello. Questa volta però
era una cosa più seria: ci siamo ritrovati presto a spacciarlo
solo per avere qualche dose tutta nostra.
Dopo un paio di
mesi il Galak è sparito dalla piazza.
Si disse che avevano beccato un corriere a Piacenza e non
era la solita palla per alzare il prezzo.
Potevi essere disposto a pagare quanto ti pareva ma il Galak
non c'era proprio.
Così qualcuno pensò bene di buttare sul mercato
una partita di Choco Nippon: una merendina giapponese di wafer ricoperto
al cioccolato bianco.
All'inizio faceva il suo effetto poi qualcuno ha preso a
tagliarlo male e in molti hanno finito per lasciarci le penne.
A me, in fondo, è andata anche bene: ho avuto un
brutto collasso ma sono riusciti a salvarmi.
Ora sono qui, in questa comunità
della "PazzaPizza", da sei mesi e mi sono disintossicato completamente
dalle merendine.
Ma è facile dire così quando non ce le hai
a portata di mano.
In realtà solo quando uscirò potrò
scoprire se sono riuscito a togliermele per sempre dalla testa.
Per ora, la sera, riesco ad addormentarmi
solo contando i Pinguì.
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